Ghiacciai lombardi e surriscaldamento del pianeta (storia del cambiamento climatico)

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Ghiacciai lombardi e surriscaldamento del pianeta (storia del cambiamento climatico)

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Pubblicato da Colombarolli Davide in cambiamenti climatici · 16 Marzo 2021
Tags: globalwarmingCO2storiadelcambiamentoclimatico
Capita spesso che le cose piccole possano creare grandi problemi, lo stiamo vedendo con il virus SARS-CoV-2, grande qualche nanometro ed invisibile ai normali microscopi, e lo vediamo anche osservando le conseguenze climatiche all’innalzarsi della temperatura media mondiale di “soli” +1,1 °C dalla fine della PEG (Piccola Era Glaciale, periodo freddo iniziato tra il 1200 ed il 1300 e conclusosi attorno alla metà del 1800).
Se consideriamo poi che l’area mediterranea in cui viviamo è un “hot spot climatico”, ovvero una di quelle zone della terra nelle quali per ragioni di correnti e orografia la temperatura media sale molto di più che in altre parti del pianeta, allora ecco che per i ghiacciai lombardi ed in genere per tutti quelli delle Alpi, si sta prospettando quella che potrebbe essere una sorta di “tempesta perfetta”. Sappiamo infatti che sulle Alpi l’aumento di temperatura è stato di circa +2 °C dalla fine della PEG, ovvero il doppio della media mondiale, con conseguenze che tutti possiamo osservare durante le escursioni in aree ancora glacializzate delle nostre montagne.
Abbiamo accennato all’aumento della temperatura come il problema più grosso, ma è bene conoscere per completezza di informazione cosa sta succedendo alle precipitazioni. Ebbene, è probabile che gli eventi estremi sempre più frequenti ne abbiano variato la distribuzione temporale durante l’anno, ma al momento nella loro quantità totale sono sostanzialmente invariate negli ultimi 150 anni. Quindi, la forte riduzione dei ghiacciai che stiamo osservando sta avvenendo con precipitazioni complessive stabili ma con molta più pioggia rispetto a neve a causa dell’aumento delle temperature in tutte le stagioni.
Dobbiamo allora focalizzare l’attenzione sul problema vero, il riscaldamento globale, e a che cosa questo fenomeno è dovuto.
Sin dalla fine del 1800 gli scienziati hanno capito una cosa importante, ovvero che c’è un legame piuttosto stretto tra anidride carbonica (CO2) e temperatura dell’aria. Fu Svante Arrhenius nel 1896 il primo a dimostrarne la correlazione e addirittura a fare una previsione (che si rivelò tra l’altro piuttosto accurata) del possibile aumento delle temperature in conseguenza della combustione di carbone e petrolio a causa dell’incremento dell’effetto serra naturale provocato proprio dalla CO2 ed in minor proporzione anche dal metano (CH4) ed altri gas.
Questi gas ad effetto serra svolgono una funzione fondamentale per la terra. Senza di essi avremmo una temperatura di – 18 °C e il pianeta sarebbe una sorta di palla di ghiaccio, mentre ai giorni nostri la temperatura media è di circa + 14 °C. Dobbiamo quindi immaginarci i gas come una sorta di pellicola attorno alla terra, che ha il compito di respingere subito una parte delle radiazione solare (circa il 30 %) e di trattenerne al suo interno una certa parte, in un equilibrio tale da consentire la vita con il clima che conosciamo.
In una condizione statica nulla muterebbe, le condizioni dell’atmosfera resterebbero sostanzialmente stazionarie ma sappiamo bene che non è così. Un sistema varia quando una forzante agisce su di esso ed è in grado di modificarne i valori in positivo o in negativo. La forzante più importante che ha agito almeno nell’ultimo milione di anni sul clima è di origine astronomica e si esplica con una serie di cicli relativi all’orbita terrestre e ad altri complessi cicli scoperti dal matematico serbo Milutin Milankovic. Le variazioni orbitali, modificando gradualmente e su tempi lunghissimi la quantità e la distribuzione spazio-temporale dell’energia in arrivo dal sole, nel tempo hanno dato vita a lunghe fasi fredde (glaciazioni) e periodi più brevi dal clima temperato (interglaciali) come quello che stiamo vivendo tutt’ora.
Ma che ai giorni nostri qualcosa non torni più seguendo i deboli cicli astronomici, è molto più che un sospetto, è oggi una certezza. Allo stato attuale la quantità di CO2 presente nell’aria ha una concentrazione pari a 415 ppm (parti per milione), valore che sappiamo non avere precedenti negli ultimi 3 milioni di anni. Se prendiamo come riferimento gli ultimi 800.000 anni, il valore di detto gas non ha mai superato il valore di 290 ppm, con picchi massimi nei periodi interglaciali e minimi durante le glaciazioni fino a circa 180 ppm. Questi dati sono ovviamente indiretti e ricavati da proxy basati sull’analisi dei sedimenti oceanici e da carotaggi antartici. La differenza tra questi valori storici e quelli attuali è attribuibile esclusivamente all’interferenza drastica delle attività umane degli ultimi 150 anni. Fattori naturali quali macchie solari o eruzioni vulcaniche è dimostrato che non hanno peso rilevante sulle variazioni del clima. Stiamo quindi osservando per la prima volta nei miliardi di anni di vita del pianeta, l’azione di una forzante diversa da quelle naturali che ne hanno governato il clima in passato e che si va a sommare ad esse rendendole del tutto insignificanti in termini di intensità: la forzante umana.
Dopo Arrhenius, si deve a Charles Keeling negli anni ‘50 l’inizio sistematico delle misurazioni della CO2, e i grafici derivati mostrano una linea di tendenza al rialzo pressoché costante, con un’impennata importante soprattutto negli ultimi 60 anni (figura 1),

figura 1
in concomitanza con l’industrializzazione dei paesi emergenti e al più che raddoppio della popolazione mondiale, passata nel frattempo da 3,5 a 7,7 miliardi di unità. Negli anni ’60 con Syukuro Manabe e colleghi iniziarono poi le prime elaborazioni modellistiche, sempre più affinate e prestanti nei decenni successivi.  
Anche questi modelli portarono alla conferma delle prime intuizioni ottocentesche riguardo al ruolo della CO2 nel global warming e ai giorni nostri abbiamo la possibilità di avere previsioni e scenari futuri differenti a seconda di quanto e quando l’umanità deciderà di prendere sul serio la questione climatica. Alla fine degli anni ’80 nasce l’IPCC (Intergovermental Panel on Climate Change), un organismo dell’ONU che semplicemente riassume tutti gli studi che riguardano il clima effettuati dai climatologi di tutto il mondo e li condensa in elaborazioni e rapporti che vengono poi presentati ai governi, al fine di informarli sull’evoluzione climatica e sugli effetti presenti e futuri dei cambiamenti che stiamo osservando. E’ bene sapere che questi studi arrivano allo stadio finale della divulgazione non prima di essere stati revisionati (anche più volte) da apposite commissioni di studiosi del settore, al contrario di diverse sterili teorie negazioniste che spesso sono portate avanti da personaggi che non hanno alcuna esperienza in materia.
E proprio l’IPCC ci mette davanti a 4 possibili scenari detti RCP (Representative Concentration Pathways) con previsioni degli effetti sull’ambiente a seconda del range di aumento della temperatura atteso entro la fine del secolo. Si parte da quello considerato “di sicurezza” che prevede un aumento di temperatura per il 2100 di 1,5 C° dall’epoca pre-industriale e che si otterrebbe attuando da subito una rigorosa politica di riduzione e azzeramento delle emissioni, fino al peggiore che prevede l’aumento della temperatura di circa 5°C che si otterrebbe senza che vengano prese misure di contenimento delle emissioni e porterebbe il pianeta a condizioni invivibili per l’umanità. Per ogni scenario si ipotizzano le possibili conseguenze quali aumento del livello dei mari, fusione dei ghiacciai, desertificazione e tutte le ripercussioni dirette sulle popolazioni più interessate agli eventi connessi (www.ipcc.cmcc.it).
Ma in tutto questo, come stanno attualmente i nostri ghiacciai lombardi e che futuro avranno? Qui passo direttamente a quella che è la mia materia di studio come operatore glaciologico volontario del Servizio Glaciologico Lombardo, che è una odv, organizzazione di volontariato, impegnata fin dal 1985 nel monitoraggio degli oltre 200 apparati lombardi (a loro volta raggruppati in 10 grandi gruppi) e dal 2018 anche nel monitoraggio in Bolivia del ghiacciaio Chachacomani.
Come già descritto, l’aumento di 1,1 °C della temperatura media della terra (siamo al primo scenario RCP), si è tramutata in quasi +2° sulle Alpi e ad oggi ha portato ad una perdita stimata di almeno il 60 % del ghiaccio presente in Lombardia alla fine della PEG. Per fare qualche esempio, la lingua valliva del ghiacciaio dei Forni in alta Valtellina, in poco più di 150 anni ha subito un arretramento di 2,8 km, quella del ghiacciaio del Ventina in Valmalenco di 1,6 km.
La sorprendente accelerazione nella fusione degli ultimi 40 anni non ha eguali. Il ghiacciaio di Campo Nord Paradisin sito nel territorio di Livigno e che citerò spesso in quanto direttamente responsabile dei monitoraggi, oltre ad essere un nostro ghiacciaio campione/laboratorio, ha restituito dati in tal senso che dimostrano la più che quadruplicata velocità di ritiro frontale rispetto al periodo precedente dalla metà dell’800 alla metà degli anni ’80; in particolare, negli ultimi 10/15 anni stiamo assistendo alla forte riduzione di spessore anche di parecchi metri ogni anno.
In questo contesto già apocalittico per la glaciologia lombarda, abbiamo capito che, salvo rare eccezioni legate alla morfologia particolare di alcuni siti come avviene per quelli orobici, i ghiacciai sotto i 3300 m sono ormai da considerarsi dei relitti climatici, figli cioè di una condizione climatica che attualmente non c’è più. Come conseguenza, gran parte del ghiaccio presente oggi è destinato a scomparire nel giro di qualche decennio anche se, ipoteticamente, le temperature dovessero smettere di aumentare.  
Quei pochi esempi di ghiacciai presenti ancora oggi a quote sin attorno ai 2600 m, soprattutto lingue vallive dei ghiacciai più grandi, ci restituiscono perdite di spessore eccezionali. E’questo il caso della fronte orientale del ghiacciaio di Fellaria-Palù in Valmalenco, che nella sola estate 2019 ha perso ben 6,5 metri di spessore, o la fronte del Mandrone in Adamello, che nella stessa estate di metri ne ha persi 5.
Un ghiacciaio “tipo” ad una quota di 3000 m con esposizione settentrionale come il Campo Nord Paradisin di Livigno, perde mediamente ogni anno nella sua area più rappresentativa 2,2 metri di spessore con punte anche di oltre 3 metri (figura 2).

figura 2

Dal 2007 al 2019 i metri persi sono stati ben 29. Questo non significa che il ghiacciaio perde sull’intera superficie tutto questo ghiaccio, per conoscere questo dato occorre fare un bilancio di massa. Con il metodo tradizionale, per ogni fascia altimetrica e per aree particolari come ad esempio quelle più in ombra o con residui valanghivi, viene infissa una palina ablatometrica che è rappresentativa di quell’area e ne restituirà poi il relativo valore di perdita o di guadagno. La somma dei valori di tutte le aree ci daranno un numero espresso in metri di equivalente in acqua (unità di misura per quantificare i bilanci di massa) e non più in cm di ghiaccio (figura 3).

figura 3

  
Purtroppo non c’è inverno nevoso o meno (salvo rare eccezioni) che possa reggere alla furia del caldo estivo e qualche volta anche autunnale. Esempio eclatante ne è stato il 2018 nel quale, tanto per citare un esempio, il ghiacciaio Alpe Sud Sobretta sopra Santa Caterina Valfurva ad una quota di 3200 m, tra l’inizio di settembre ed il 23 di ottobre ha visto la fusione di un metro di spessore di ghiaccio, in aggiunta ai 2 metri che erano già stati persi alla fine agosto. Puntualmente ogni anno arriva ogni sorta di record di caldo, come quello che al 26 giugno 2019 alla nostra stazione meteo di quota 2933 m del Campo Nord Paradisin ha fatto registrare ben + 17,1 °C, o al record di temperatura media estiva con + 6,4 °C sempre nell’estate 2019 o quello del giugno più caldo con + 6,2 °C ancora una volta nel 2019 (ben 3°C in più della media).  
Il futuro per la glaciologia lombarda non sarà piacevole e non solo per gli amanti della montagna e del ghiaccio. Avremo meno acqua di fusione estiva ad alimentare la portata dei grandi fiumi. Ci saranno più problemi legati alla lenta ma progressiva degradazione del permafrost, ovvero il terreno o roccia congelata in profondità che ha la fondamentale funzione di stabilizzare i pendii. La sua destabilizzazione potrebbe causare eventi catastrofici dal punto di vista delle frane in quota come successe nel 2004 per la frana del Thurwieser o nel 2017 per la frana del Cengalo nella parte svizzera della val Bregaglia.
A fine novembre 2019 l’Europa ha dichiarato l’emergenza climatica, ponendo l’obiettivo di riduzione a zero delle emissioni di CO2 entro il 2050 nel tentativo di contenere l’aumento della temperatura a fine secolo entro 1,5°C, primo dei 4 scenari RCP ed unico modo per far sì che le prossime generazioni abbiano la possibilità vedere ancora qualche ghiacciaio sulle nostre montagne…non solo in fotografia.


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